mercoledì 23 novembre 2011

INTERVISTA A ARNALDO OTEGI DEL 21/02/11 da GARA

Quest’intervista è stata realizzata pochi giorni prima della dichiarazione dell’ETA [in cui proclamava un “cessate il fuoco” permanente, generalizzato e verificabile]. Nelle pagine seguenti, Otegi anticipa eventi, sequenze di avvenimenti e situazioni, alcune positive altre no, e riflette e risponde approfonditamente su tutte. Questa capacità fa sì che una serie di domande inviate ad una prigione si trasformi in un dialogo diretto con la società basca. Questo è il risultato.
Nell’intervista che ci ha concesso due anni fa, già indicava come necessario un adeguamento della strategia politica della sinistra abertzale (indipendentista).
Effettivamente, quella necessità rispondeva all’urgenza di rimuovere un’equazione strutturale per il nostro processo di liberazione, che in maniera sintetica potremmo così formulare: se da più di un decennio consideriamo che esistano condizioni oggettive per il cambiamento politico in Euskal Herria e, senza dubbio, questo cambiamento non si produce, qual è la ragione (o le ragioni) di questo mancato cambiamento? Le possibili risposte potevano essere fondamentalmente due: o ci sbagliavamo in merito all’esistenza di quelle condizioni, o la sinistra abertzale, in qualità di motore principale del cambiamento, manteneva una strategia inadeguata affinché questo cambiamento si materializzasse. Cercare la risposta adeguata a questo interrogativo è il compito su cui abbiamo costruito, sviluppato e definito il nostro dibattito e la nostra scommessa politica.
In questo sforzo di riadeguamento citava come necessario tenere in considerazione anche alcuni fattori che definiva come novità in ambito internazionale.
Pensavo fondamentalmente a due cose: da un lato, la constatazione nello stesso quadro europeo dell’assoluta fattibilità del processo indipendentista se si fossero raggiunte maggioranze popolari attraverso strategie pacifiche e democratiche; e, dall’altro, in un ambito sociale, annotavo l’esistenza di nuove esperienze trasformatrici costruite sulla base di strategie di accumulazione, soprattutto in America Latina, conosciute comunemente con il nome di “socialismo del XXI° secolo”. Oltre a questi fattori, oggi includerei la feroce offensiva del capitale contro il “Welfare State” come elemento di analisi centrale e che deve occupare uno spazio anche nel riadeguamento della nostra strategia.
Due anni dopo quell’intervista, ha, di nuovo, più di un anno di prigione sulle spalle. Perché crede che l’abbiano arrestata nell’ottobre del 2009, quando sembra evidente che il Governo spagnolo era a conoscenza del lavoro che stavate facendo?
Hanno fabbricato un’accusa falsa e ci hanno incarcerati proprio perché sapevano esattamente quello che avevamo intenzione di fare e volevano impedirlo… ma sono arrivati tardi. C’è un dato che dobbiamo avere chiaro: ai fattori che sottolineavo nella risposta precedente bisogna aggiungere nel caso dello Stato spagnolo la profonda crisi di quello che definiscono come “il modello territoriale”. Questa crisi del modello delle autonomie non interessa solo Euskal Herria, ma ha toccato anche la Catalunya dopo la sentenza del Tribunale Costituzionale. E da lì, sommando gli effetti della crisi economica in merito alla solvibilità delle amministrazioni pubbliche, lo stesso modello costituzionale. Oggi lo Stato sa che una seconda transizione è ormai inevitabile. È lì (nella preparazione del terreno) che, per esempio, dobbiamo collocare idealmente il documento patrocinato dalla fondazione Everis e elaborato da 100 attori economici della massima importanza, o l’inclusione – né innocente né casuale – di una domanda relativa alla necessità di una riforma della Costituzione nell’ultima inchiesta del Centro de Investigaciones Sociólogicas (CIS). Allo stesso modo, è evidente che per indirizzare questo processo lo Stato cercava uno scenario in cui la sinistra abertzale fosse, se non annichilita, almeno neutralizzata politicamente, al di fuori delle istituzioni. Questo è l’obiettivo della repressione. Per questo la nostra evoluzione li ha colti assolutamente in controtempo.
Arnaldo Otegi è un riferimento politico, principale interlocutore, leader, simbolo, perfino un numero (utilizzato nella campagna per la sua liberazione). Forse per questo motivo c’è quest’ossessione verso la sua persona che pare riflettersi, per esempio, nell’ultimo processo [per l’atto di Anoeta]?
Sull’ossessione “personale” contro di me, in quanto interlocutore principale o riferimento della sinistra abertzale, penso che abbia l’obiettivo complementare di mostrare e trasmettere alla società basca una sorta di “effetto che sia da esempio”. In ogni caso non mi piace parlare in termini personali. Per questo, ora che mi si attribuisce gran parte del merito dell’evoluzione della strategia della sinistra abertzale, voglio affermare che essa è stata resa possibile solo grazie all’impegno e all’apporto di una generazione più giovane della mia, che ha dimostrato grande maturità e responsabilità. Per questo esprimo pubblico apprezzamento a tutti e tutte, soprattutto a Sonia Jacinto, Arkaitz Rodríguez e Miren Zabaleta… Loro hanno molti più meriti nel cambiamento avvenuto in seno alla sinistra abertzale.
A cosa si riferisce quando parla dell’inevitabilità di una seconda transizione? (La prima transizione è quella dal regime franchista alla “democrazia”)
Constato che oggi in nuclei politici, economici e mediatici dello Stato si ha perfettamente la coscienza della necessità di una revisione del modello derivato dalla Costituzione del 1978. Questa revisione e il dibattito sui contenuti della stessa nascono perché il modello attuale fa acqua da tutte le parti. Tramite questa revisione si vogliono raggiungere in particolare due obiettivi: neutralizzare definitivamente i problemi “nazionali” nel modello “territoriale” e approfittare della crisi per smantellare il già rachitico Welfare State. Questa è la sfida che affrontiamo – né più né meno. Nel contesto di questo dibattito pendente e inevitabile oso avventurarmi per capire quali siano le tre grandi linee di proposta che sono sul tavolo: ci sarà una posizione che cercherà di impedire il dibattito stesso, perché capirà che la sola apertura condurrebbe inesorabilmente al fallimento della “Spagna” come progetto praticabile; è l’attualizzazione del pensiero di Ortega e Gasset. I difensori di questa posizione saranno disposti solo ad un dibattito parziale su temi che non ritengono strutturali (in definitiva, un inganno). La seconda posizione sosterrà con assoluta trasparenza che la riforma dovrebbe avere una natura chiaramente regressiva e reazionaria, in cui porranno come obiettivo, ad esempio, il recupero da parte dello Stato di competenze cedute alle differenti autonomie (istruzione, ecc.), oltre ad una modificazione della legge elettorale che garantisca che i cosiddetti “nazionalisti” non diventino alla fine gli arbitri della governabilità dello Stato. Il meccanismo per portate avanti questo tipo di riforma sarebbe passare attraverso un grande Patto di Stato tra il Partido Popular (PP) e il Partido Socialista Obrero Español (PSOE). E in terzo luogo porremo coloro che ritengono che la seconda transizione dovrebbe dare vita ad uno scenario in cui si accetti la plurinazionalità dello Stato nonché il diritto a decidere liberamente il proprio futuro per popoli come il basco, il catalano, il galiziano… Questo è il contesto a cui ci siamo preparati attraverso il riadeguamento della nostra strategia.
La sinistra abertzale si muove sulla strada che lei sperava?
Senza ombra di dubbio. Sono molto orgoglioso dell’onesta autocritica che abbiamo fatto. Credo che una delle chiavi per incidere nei contenuti di questa seconda transizione pendente sia la nuova scommessa strategica realizzata dalla sinistra abertzale.
Qual è il punto di forza di questo processo?
Il punto di forza del processo (sebbene sappiamo che dovremo superare una feroce opposizione allo stesso) riposa nella nostra capacità di anticipazione politica e nella lunga esperienza di organizzazione e lotta di cui ha dato prova la nostra base di militanti.
E quali sono le sue tappe? Quali avvenimenti dovrebbero segnare il suo sviluppo, immediato o futuro?
Penso che il primo grande obiettivo del processo in marcia (così come è stato raccolto nell’Accordo di Gernika) sia generare le condizioni sufficienti affinché si possano sviluppare e raggiungere stadi di sviluppo superiore nel futuro. In ogni caso, gli avvenimenti che potrebbero e dovrebbero attendersi, detto in sintesi, dovrebbero essere: l’assunzione da parte dell’ETA dei contenuti della Dichiarazione di Bruxelles e dell’Accordo di Gernika, la legalizzazione del processo della sinistra abertzale e la disattivazione delle misure di eccezione che si applicano al Collettivo di Prigionieri e alla sinistra abertzale nel suo complesso. Questo scenario di normalizzazione politica deve essere sospinto dalla società basca con la mobilitazione e con interpellanze e pressioni sul Governo per le sue politiche attuali. Senza mettere in campo la somma delle forze, l’impegno e la lotta democratica, non raggiungeremo il nostro obiettivo di conquistare un nuovo scenario politico.
Crede che abbia avuto più o meno incertezze o resistenze interne di quelle prevedibili? E quelle esterne? Sono quelle prevedibili?
Quando abbiamo deciso di aprire questo processo di dibattito, nel 2008, eravamo ben coscienti del fatto che nella misura in cui toccava questioni essenziali della nostra strategia, inevitabilmente avrebbe generato resistenze in qualche settore della nostra ampia base sociale. Sarebbe stato strano (e preoccupante) il contrario. In ogni caso, abbiamo deciso di tenere questo processo a livello nazionale di Euskal Herria e senza offrire alcun margine né all’ambiguità né, men che meno, all’autocompiacimento. Oggi la nostra base è assolutamente coesa rispetto alla nuova strategia. Questo è l’importante. In definitiva, credo sinceramente che le resistenze interne siano state quelle che avevamo previsto o, addirittura, oserei dire minori.
Durante tutta la sua storia la sinistra abertzale ha avuto una visione molto concreta della lotta armata. È cambiata o, come sostenne l’ETA nella sua Quinta Assemblea, “ogni tempo esige forme organizzative e di lotta specifiche”?
Il dibattito sugli obiettivi e gli strumenti di lotta è un dibattito proprio di tutte le organizzazioni veramente rivoluzionarie. Le organizzazioni rivoluzionarie nascono dal popolo e sono al suo servizio. Questa dichiarazione della Quinta Assemblea dell’ETA si identifica completamente con queste riflessioni. Non ho mai conosciuto militanti tanto autocritici o critici della lotta armata – per esempio nei termini della sua convenienza, del suo apporto reale al processo e perfino in termini etici – degli stessi militanti dell’ETA. Mi creda, mai! Torniamo a ripeterlo: oggi le sfide del processo di liberazione nazionale e sociale esigono, come ben sintetizzato dal documento “Zutik Euskal Herria” (In piedi Euskal Herria), nuovi strumenti organizzativi. Per esser chiari: i tempi attuali esigono il superamento definitivo di una fase politico-militare e la sua sostituzione con una strategia di organizzazione, accumulazione e lotta esclusivamente democratica. Come diceva il titolo dell’articolo d’opinione che noi cinque detenuti scrivemmo dal carcere di Estremera: nuova fase, nuova strategia, nuovi strumenti e gli stessi obiettivi. È questa la scommessa già in marcia.
Si sente la mancanza di una partito legale? Qual è il prezzo di tale mancanza? Come valuta l’ultima iniziativa in questo senso: la presentazione ad Iruñea (Pamplona), lo scorso 27 novembre, da parte di circa 300 militanti significativi, di un documento di base per la creazione di un nuovo progetto politico e organizzativo? L’annuncio del fatto che questo nuovo progetto politico della sinistra abertzale osserverà la Ley de Partidos ha suscitato non poche reazioni…
Appoggio totalmente e in maniera incondizionata l’iniziativa adottata per la creazione di una nuova formazione politica, resa pubblica ad Iruñea, e rendo omaggio pubblicamente ai suoi promotori. Sulla necessità di disporre o meno di una sigla legale, formulerei la domanda in questi termini: per far fronte con efficacia alle sfide che abbiamo menzionato, necessitiamo l’eguaglianza di condizioni con il resto delle formazioni politiche? Abbiamo bisogno di dotarci di strumenti organizzativi che ci permettano di inquadrare i settori più coscienti e combattivi della popolazione lavoratrice? Abbiamo bisogno di esser presenti nella lotta istituzionale? E nello sviluppo della lotta delle masse?... E la risposta è sì, senza alcun dubbio. In quanto al prezzo, le dirò due cose: il prezzo di accettare, per esempio, le condizioni della Ley de Partidos è insignificante se lo compariamo col prezzo che il nostro popolo pagherebbe se non fossimo nelle migliori condizioni per avanzare nel processo di liberazione nazionale. E, in secondo luogo, c’è un solo prezzo che non pagheremo mai: rinunciare alla lotta per conquistare una Euskal Herria indipendente e socialista.
Percepisce ansia per il prossimo appuntamento elettorale? E, se sì, crede che essa possa avere qualche influenza sulla scommessa – a lungo termine – della sinistra abertzale? Come si può o si dovrebbe gestire quest’ansia? O, per dirla in un altro modo, che importanza ha il tempo (il tempo reale e il tempo politico)?
In primo luogo percepisco un’ansia crescente nei settori “unionisti” perché sanno che con la nostra sola presenza elettorale tutta la realtà virtuale che hanno cercato di costruire attorno al “cambiamento” crollerebbe come un castello di carta. Inoltre, la nostra presenza sia alle municipali che alle “forales” mostrerebbe con evidenza l’autentica falsità delle menzogne in merito alla nostra supposta debolezza o addirittura alla nostra sconfitta politica. È triste dirlo, ma alcuni pongono il mantenimento della violazione dei diritti basilari in relazione ai propri calcoli elettorali. La società deve rendersi conto della falsità e del cinismo di molti discorsi, di molti leader politici che esigono condanne a danno della sinistra abertzale, mentre non sono stati ancora capaci di condannare il franchismo. Detto ciò, percepisco anche una certa ansia nella nostra base sociale, frutto di anni di restrizioni e limitazioni al nostro diritto alla partecipazione elettorale. Bene, la prima cosa che voglio affermare è che la nostra presenza alle elezioni di maggio è fondamentale non solo per superare una realtà di segregazione poltico-ideologica che distorce la volontà della società basca e il suo quadro istituzionale, ma anche per legare l’irreversibilità del processo democratico a tutto il complesso di attori politici e sociali. E in secondo luogo, come si è già sostenuto pubblicamente, la nostra scommessa va ben oltre queste elezioni e ha una componente strategica.
Perché era necessario l’accordo strategico con Eusko Alkartasuna (EA) (Partito indipendentista social-democratico)?
Innanzitutto dovremmo distinguere con chiarezza il nostro progetto politico da una parte e la nostra politica di alleanze necessaria per far avanzare il processo dall’altra. Se vogliamo costruire uno Stato, non dobbiamo perdere la prospettiva che questo sarà possibile solamente avendo chiaro che il motore o la contraddizione principale che è alla base del processo di liberazione è quella tra Euskal Herria da un lato e gli stati spagnolo e francese dall’altro. E, in secondo luogo, che abbiamo bisogno di distanziarci in maniera permanente dagli interessi partitari, dalla “politicaccia”, per sviluppare fin da ora una autentica e genuina politica di Stato. È nel quadro di queste considerazioni che si devono gestire le contraddizioni che senza dubbio sono insite in ogni processo politico. Le contraddizioni di classe, o altre nella nostra politica di alleanze, devono essere gestite e risolte con intelligenza, senza che i rami ci impediscano in alcun caso di vedere il bosco.
L’attuale situazione di crisi esigerà che si offrano delle alternative concrete: le avete?
L’obiettivo che persegue l’attuale offensiva condotta dall’oligarchia finanziaria è evidente: smantellare il Welfare State o, detto altrimenti, distruggere tutte le conquiste raggiunte negli ultimi decenni dal movimento operaio. Lo scenario che ci presenta il capitalismo non presenta ombra di dubbio: le prossime generazioni vivranno in condizioni peggiori delle precedenti, con più paura e meno diritti. Questa è la sua alternativa. Stando così le cose e cercando di legarmi alla domanda precedente, vorrei esporre due riflessioni: oggi difendere le conquiste operaie, popolari, concretizzatesi in quello che si è denominato Welfare State è un obiettivo rivoluzionario e antioligarchico. Due: la difesa di queste conquiste pone come compito necessario propiziare un’ampia alleanza di settori che vanno dal socialismo alla socialdemocrazia, arrivando ai comunisti, ai settori di cristiani di base… Anche il blocco indipendentista deve essere il quadro per quest’alleanza.
Nell’accordo si raccoglie anche la relazione preferenziale con la maggioranza sindacale: considera Eusko Langileen Alkartasuna (ELA) disposta a compromettersi nel cammino verso l’indipendenza?
Sia ELA che LAB, così come l’insieme della maggioranza sindacale, devono contribuire, dal proprio ambito, al rafforzamento di un’autentica alternativa nazionale e sociale. Detto ciò, osservo con soddisfazione la presenza del sindacato ELA in molte mobilitazioni, sebbene ritenga che la sua mancata adesione all’Accordo di Gernika non sia coerente dal momento che le condizioni ambientali che hanno sempre voluto ora esistono. In ogni caso, sono convinto che anche ELA andrà adottando progressivamente nuovi e decisi impegni. Sono convinto di questo.
Questo Partido Nacionalista Vasco (PNV) è un compagno di strada nel processo o un ostacolo?
Il processo che abbiamo messo in moto deve servire anche per una chiarificazione strategica definitiva in Euskal Herria. Tutti noi che aspiriamo a creare uno Stato abbiamo fatto una scommessa. Il signor Urkullu (leader del PNV, NdT) mente quando afferma che non è stato invitato a formare quest’alleanza, o all’Accordo di Gernika: se il PNV non c’è è perché ha deciso di non esserci. E lo ha deciso perché crede di avere ancora margini sufficienti per sviluppare da un lato una politica “soberanista de romería”, mentre mantiene una ferrea alleanza con il PSOE (e se fosse il caso anche con il PP), rendendosi corresponsabile della brutale politica di tagli sociali del Governo spagnolo e basco, e agendo come se fosse portavoce del Ministero degli Interni quando esprime giudizi sulle posizioni della sinistra abertzale. Ora la EBB (Euskadi Buru Batzar, Direzione Nazionale del PNV, NdT) ha deciso di tornare a ricercare l’accordo, la collaborazione con lo Stato nel confronto democratico che si è aperto sui contenuti della seconda transizione. Questo è lo scenario attuale, ma le posizioni non sono immutabili, la sua evoluzione dipende dalla forza degli indipendentisti. A partire da qui il pronostico è chiaro: manterremo a volte spazi di collaborazione, altre volte di scontro. Per questo la sinistra abertzale sarà sempre disposta a spazi di collaborazione e incontro per costruire tra tutti uno scenario di riconoscimento nazionale e rispetto della volontà popolare democratica.
Tra le altre cose, Zapatero afferma che l’evoluzione della sinistra abertzale è il frutto positivo della strategia che il Governo spagnolo portò avanti nel processo precedente: cosa gli risponde?
Ho già spiegato dove vadano ricercate le ragioni del cambiamento della nostra strategia, così che non condivido quest’affermazione tranne se la intendessimo nel senso che effettivamente abbiamo fatto un’autentica e profonda autocritica in merito alla posizione che tenemmo nel processo di dialogo precedente, nel quale commettemmo gravissimi errori dai quali abbiamo tratto le debite conseguenze e che non torneremo a ripetere mai più.
Che ruolo dovrebbe giocare il Governo spagnolo nel nuovo processo? Come possono la sinistra abertzale o la società basca ottenere che anche lo Stato spagnolo cambi fase?
Lo Stato, sia ben chiaro, non ha alcun interesse a cambiare fase poiché reputa che nell’attuale stia vincendo e che i baschi stiano perdendo. Quando lo Stato cambierà fase? Quando, attraverso la nostra lotta, l’accumulazione di forze e attraverso il confronto democratico, arrivi alla conclusione che non farlo comporterebbe più costi che benefici.
Perché è importante l’appoggio estero? Perché crede che i firmatari e i promotori della Dichiarazione di Bruxelles siano in un certo modo tanto disprezzati tanto a Madrid quanto da parte di alcuni partiti in Euskal Herria?
La presenza di osservatori internazionali ci permette di spostare il confronto delle idee e le proposte ad uno scenario e ad uno spazio in cui le nostre posizioni sono infinitamente più potenti di quelle dello Stato, chiaramente perché oltre che ragionevoli sono scrupolosamente democratiche. Pertanto, il disprezzo manifestato da alcuni settori rispetto alla loro presenza è direttamente proporzionale alla loro debolezza politica.
Al momento com’è la sua vita in prigione rispetto alle altre volte?
Tirando un bilancio dei miei anni in carcere mi pare di aver già cominciato ad affrontare il nono anno, così che da Herrera de la Mancha (una delle prime carceri di massima sicurezza costruite dallo stato spagnolo) fino a qui ho vissuto praticamente tutte le fasi che ha vissuto il Collettivo lungo gli anni della sua esistenza. Ora, e nel carcere di Logroño, sono l’unico prigioniero politico che “vive” nel mio braccio. In ogni caso, oltre a praticare molto sport e a dedicarmi molto alla lettura, cerco sempre di seguire il consiglio del leader sudafricano Nelson Mandela: continuare a formarci per quando recupereremo la libertà.
Quale crede che sia il ruolo dei prigionieri politici in questo processo democratico?
Il Collettivo di Prigionieri Politici è un attore impegnato nel processo democratico. Gli attori politici, sindacali, sociali dovrebbero aprire canali ufficiali di comunicazione con la sua interlocuzione ufficiale. Questo permetterebbe, dal mio punto di vista, di raggiungere accordi che renderebbero possibile concretizzare i nostri impegni. È un suggerimento che desidero sia diffuso.
Come e quando bisognerebbe affrontare la questione dei prigionieri nel processo?
La libertà dell’insieme dei prigionieri politici deve essere affrontata all’inizio del processo di dialogo e negoziazione, come ambito autonomo di negoziato tra ETA e Stato, senza attendersi accordi politici di carattere risolutivo.
Che cosa pensa dei “movimenti” di prigionieri cui sta dando luogo il Ministero degli Interni?
Tutti i “movimenti” cui il Ministero degli Interni dà luogo attraverso l’applicazione di quella che si è soliti definire “politica penitenziaria” hanno avuto e hanno un solo scopo: fare in modo che la sinistra abertzale arrivi a questa congiuntura storica o neutralizzata, o divisa, o quanto più indebolita possibile; chiaramente il motivo di fondo è che hanno capito che questa è l’unica garanzia del fatto che non possiamo condizionare in maniera efficace il loro progetto di seconda transizione.
Cosa si può fare realmente e in maniera efficace per frenare la repressione, i maxi-processi…?
Riprendo una risposta che ho già dato ad una precedente domanda: lo Stato smetterà di esercitare nella maniera attuale la repressione quando capirà che, in termini politici, sociali e internazionali, essa genera più costi che benefici.
Cosa pensa ogni volta che si esige che la sinistra abertzale condanni l’ETA – anche ora, in pieno periodo di cessazione delle sue attività armate – e vengono portati come esempi leader come Nelson Mandela o Gerry Adams?
Penso che anche da Mandela o da Adams pretendessero condizioni simili nei loro rispettivi processi. Insisto: allo Stato, agli unionisti, a quelli che vivono del conflitto (i burocrati della sicurezza) non interessa il cambiamento di fase che abbiamo pianificato, chiaramente perché sono pienamente coscienti che lo stesso porterà con sé, come conseguenza, la necessità che essi cambino la loro, e sanno che in una fase di esclusivo confronto democratico noi siamo molto più forti di loro.
In sintesi, lei è ottimista riguardo alla capacità della sinistra abertzale di provocare un rovesciamento definitivo dello scenario?
Malgrado ciò che si dice, mi considero un ottimista ben informato. Quest’ottimismo non significa non esser coscienti delle enormi difficoltà e degli enormi ostacoli che dovremo superare; per questo desidero mettere in allarme quei settori che con onestà e buona volontà continuano a credere che questo o quell’impegno adottato dall’ETA (per esempio con la Dichiarazione di Bruxelles, cosa di cui non dubito) porterebbe automaticamente ad un cambiamento sostanziale della strategia dello Stato, che quest’equazione non sarà lineare. Sebbene sia chiaro che lo Stato dovrà assumere una gestione politica per costruire uno scenario di soluzioni definitive. Il processo di raggiungimento di soluzioni deve essere un processo di proprietà di tutti e tutti dobbiamo prendervi parte. Questo sì: sarà la società basca l’unico garante e protagonista reale in grado di condurre il processo ad un buon esito. Torno a ripeterlo: senza organizzazione, somma di forze e lotta di confronto democratico non raggiungeremo nemmeno il più ragionevole dei nostri obiettivi.
Che messaggio vorrebbe trasmettere alla società dalla sua cella della prigione di Logroño?
In primo luogo, considerando anche che siamo in periodo di festività natalizie, desidero mandare un forte abbraccio a tutti i familiari dei prigionieri, che si trovano a doverle celebrare di nuovo in assenza dei propri cari. Ricordo poi che alcuni sono costretti a intraprendere viaggi di migliaia di chilometri solo per poterli vedere. Sappiano che i nostri cuori e i nostri sentimenti sono e viaggiano con loro. Ai militanti della sinistra abertzale, ai familiari degli ultimi detenuti, ai nostri giovani, ai disoccupati e alle disoccupate, alla famiglia euskaldun che da poco ha perso Xabier Lete (poeta basco, morto lo scorso 4 dicembre), a tutti voglio rivolgere un messaggio che riprendo dalla campagna elettorale dei compagni del Frente Farabundo Martí de Liberación Nacional (FMLN) di El Salvador: malgrado tutto, “sorridi, vamos a luchar ”.Irabaziko dugu! Fino alla vittoria!

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